La risposta alla domanda “chi può fare crowdfunding” potrebbe essere sintetizzata con “quasi tutti”, dato che una delle sue caratteristiche è quella di essere uno strumento molto democratico. Perché una campagna di crowdfunding sia realmente utile, però, sono necessarie alcune condizioni che motivano quel “quasi”.
Per capire se il crowdfunding è una buona idea per il proprio progetto o la propria impresa, è indispensabile innanzitutto comprendere la fase di sviluppo in cui ci si trova, gli obiettivi a breve e lungo termine, le risorse necessarie per realizzarli.
Parallelamente, è indispensabile approfondire i diversi tipi di crowdfunding a disposizione e la relativa normativa. Con l’entrata in vigore del Regolamento UE sul crowdfunding nel 2023 alcune di queste norme cambieranno: è bene rimanere sempre attenti alle novità.
Chi può fare crowdfunding: cosa dice la normativa
Il crowdfunding come strumento finanziario nasce principalmente per sostenere le imprese piccole e innovative. La prima tipologia a vedere un proprio regolamento specifico è stato l’equity crowdfunding: nel 2013 Consob ha stilato il regolamento per normare questo fenomeno nuovo, che il Decreto crescita bis aveva circoscritto alle sole startup innovative.
In seguito, nel 2015, il grande successo dell’equity crowdfunding ha fatto estendere la possibilità di ricorrervi anche alle PMI innovative e ai fondi OICR. Più di recente, nel 2018, è stato eliminato persino il requisito dell’innovazione per le PMI. Uno dei punti del Regolamento UE, adesso, stabilisce un altro passo avanti: l’apertura dell’equity crowdfunding a imprese diverse sia dalle startup sia dalle PMI.
È già così, invece, per il lending crowdfunding, accessibile da imprese di tutti i tipi e dimensioni e anche da persone fisiche. Le persone fisiche devono essere maggiorenni, non avere precedenti gravi di insolvenza e avere un reddito dimostrabile a sostegno della solvibilità del prestito.
Passando al debt crowdfunding, l’emissione di Minibond oggi è consentita a tutte le PMI non finanziarie che abbiano un fatturato superiore a 2 milioni di euro oppure un minimo di 10 dipendenti. Queste condizioni escludono da un lato le banche, dall’altro le microimprese.
Il reward e il donation crowdfunding, invece, non essendo veri e propri strumenti finanziari, hanno una regolamentazione più blanda all’ingresso e può usufruirne qualsiasi tipo di soggetto.
Dalla teoria alla pratica
Conoscere la normativa è fondamentale, ma serve più a escludere determinati campi d’azione che a capire per chi effettivamente il crowdfunding sia la strada giusta.
Nella pratica si sono definite con il tempo tendenze e regole non scritte che identificano i soggetti più adatti a questa modalità di raccolta di capitale e i tipi di crowdfunding più adatti a ogni soggetto.
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A chi conviene
Innanzitutto, a fare crowdfunding sono per una netta maggior parte le startup e le PMI: anche nelle tipologie dove le grandi imprese sono ammesse, è abbastanza raro che vi facciano ricorso. Di base non ne hanno bisogno, perché possono avere accesso alle tradizionali fonti di credito con facilità e potere di contrattazione. C’è poi il timore di una sorta di stigma, come se per una grande impresa ricorrere al crowdfunding fosse segno di debolezza.
Questo timore, però, sta finalmente venendo meno: le grandi imprese stanno capendo che possono fare crowdfunding in determinate modalità e dovrebbero farlo per rafforzare le proprie comunità, accrescere la propria visibilità ed essere al passo con i tempi. Iniziano quindi a utilizzarlo per progetti specifici.
Alcuni tipi di crowdfunding, poi, sono più adatti a specifiche categorie di imprese rispetto ad altre: la modalità reward è ideale per le imprese retail perché permette di fare un test di mercato per nuovi prodotti da lanciare e per i progetti creativi, mentre le imprese di servizi possono trarre i maggiori vantaggi dall’equity crowdfunding. Il lending crowdfunding, invece, è diventato lo strumento d’elezione delle imprese immobiliari, perché consente di raccogliere risorse molto in fretta senza coinvolgere gli investitori nella gestione dei progetti.
In generale, le realtà più pronte a fare crowdfunding sono quelle ad alto tasso di tecnologia e che operano nel digitale. Questo perché sono già abituate a muoversi sul web e a utilizzare determinati strumenti e linguaggi. Non significa che imprese più tradizionali non possano farlo: è anzi un’ottima occasione per acquisire competenze nuove che saranno utili anche in seguito alla campagna.
Quando fare crowdfunding
Dal punto di vista della fase di sviluppo, in teoria a partire dall’idea per una startup fino all’impresa più strutturata, si può sempre fare crowdfunding. In pratica il crowdfunding è sì per tutti, ma impone alcune condizioni che in alcune fasi di sviluppo imprenditoriale possono essere più difficili da soddisfare.
È un percorso che richiede tempo, impegno e risorse. Chi ha solo un’idea in mano, probabilmente, è ricco di tempo e volontà di impegnarsi ma non ha risorse economiche e uno staff strutturato. Può fare crowdfunding ma avrà bisogno di più tempo e i risultati saranno proporzionati al punto di partenza. In questa fase può essere molto utile il supporto di una consulenza o un processo di incubazione dedicato alle startup nascenti.
Le startup early stage, non ancora sul mercato o appena lanciate sul mercato, possono usare il crowdfunding per dare una spinta alla propria crescita. In questa fase è importante definire bene gli obiettivi e l’allocamento delle risorse, per evitare di sprecare tempo e mezzi nella direzione sbagliata, sull’onda dell’entusiasmo. È bene inoltre essere preparati alle possibili conseguenze dello scontro con il mercato, che possono richiedere di correggere e ridefinire la propria idea imprenditoriale.
Le PMI, cioè imprese già strutturate e profittevoli, da molti punti di vista sono avvantaggiate: hanno un’idea che funziona perché ha già superato il test del mercato, hanno le risorse economiche, hanno un team. Possono quindi fare crowdfunding per sostenere il proprio sviluppo o avviare nuove divisioni. D’altra parte, però, spesso non hanno il tempo necessario da dedicare alla campagna di crowdfunding, devono mettere d’accordo più decisori in azienda e sono meno flessibili e aperti alle novità.
Si può quindi fare crowdfunding in tutte le fasi di sviluppo di un’azienda, ma ciascuna ha le proprie esigenze e criticità.
Perché l’equity crowdfunding non è per tutti
Quello che abbiamo precisato nell’ultimo paragrafo vale in particolare per l’equity crowdfunding. È la tipologia più complessa, che ha un impatto sostanziale sulla struttura stessa dell’impresa e richiede una consapevolezza maggiore rispetto alle altre.
I sostenitori di una campagna di equity crowdfunding sono investitori che con il proprio capitale acquistano quote della società proponente: diventano soci a tutti gli effetti, con diverso grado di partecipazione stabilito a monte dall’azienda. Per questo motivo, la struttura aziendale deve essere pronta ad accogliere un cambiamento del genere e a gestirlo. Quando ancora non esiste una struttura aziendale, va predisposto tutto ciò che serve per organizzarla in seguito.
Poiché il livello di coinvolgimento degli investitori è così elevato, è anche più impegnativo trovarli: il lavoro di marketing deve essere massiccio e sostenuto da risorse economiche proporzionate al risultato atteso.
Anche gli adempimenti burocratici richiesti da una campagna equity sono più numerosi rispetto ad altre tipologie, e vanno ponderati con attenzione perché possono influire sull’esito del progetto.
In conclusione, l’equity crowdfunding è un’opportunità preziosa per tutti coloro che sono pronti a comprenderla appieno e a investire in essa tutte le risorse necessarie (poche o tante che siano), con aspettative realistiche in base al proprio punto di partenza e una visione a lungo termine.
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